Theory and History of Ontology (ontology.co)by Raul Corazzon | e-mail: rc@
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This part of the section Bibliographies of Historians of Philosophy includes the following pages:
Jan A. Aertsen:
John P. Doyle:
Jean École:
Joseph S. Freedman:
Édouard Jeauneau:
Giorgio Tonelli:
Works in Italian - Scritti in Italiano 1954-1987 (Current page)
Works in Italian - Scritti in Italiano 1987-1995
Works in French - Écrits en Français
Works in German - Essays in deutscher Sprache
Index of the Pages with Bibliographies of Historians of Philosophy and Historians of Logic
Giorgio Tonelli è stato uno dei maggiori studiosi della storia della filosofia nel Settecento; i suoi scritti, pubblicati in Italiano, inglese, francese e tedesco sono apparsi in volumi e riviste e solo in piccola parte raccolti in volume.
Questo passo della Prefazione al suo primo libro contiene una sintesi della sua metodologia di ricerca: "Una monografia storica è veramente degna di tale nome allorché non soltanto vi si muta il quadro del soggetto trattato, ma allorché essa anche contribuisce in qualche modo a cambiare la mentalità con cui è opportuno scrivere monografie storiche concernenti un cerchio di soggetti assai più vasto del proprio. Se non ci illudiamo di avere con questo libro introdotto delle notevoli innovazioni in materia, speriamo però che esso valga almeno a dimostrare la necessità e la fruttuosità di un metodo storiografico che dovrebbe essere noto ma che, in storia della filosofia, viene applicato solo in una trascurabile minoranza di casi. Un atteggiamento fondamentale della nostra ricerca, e che implica tutta una particolare messa in valore del materiale a disposizione, consiste nel non considerare lo sviluppo nel tempo dei vari motivi, come interessante solo agli effetti dei chiarimenti che esso possa gettare su una qualche opera maggiore che essi preparano, considerando quest’ultima come un tutto concluso. È senza dubbio significativo che un Autore abbia voluto redigere ad un certo punto una certa parte delle proprie idee in un’opera di notevole importanza, ed è opportuno esaminare le ragioni per cui ciò avviene, e lo spirito di sistema secondo cui ciò avviene; spirito di sistema in generale ben diverso dai motivi reali che hanno portato l’Autore a quelle tali idee. Ma è ugualmente importante cercare di comprendere come siano nate tali idee, interessandosi alla dinamica del pensiero dell’Autore di per sé, indipendentemente dall’interesse per le sistemazioni occasionali, la cui giustificazione storica dipende proprio dallo studio di quella dinamica. Perché la dinamica del pensiero di un Autore ci rivela dei fatti psicologici e culturali importanti, indipendentemente dai risultati «definitivi» raggiunti due o venti anni dopo dall’Autore stesso." Kant, dall'estetica metafisica all'estetica psicoempirica (1955), p. 9.
Una bibliografia completa (fino al 1979) è stata pubblicata da Claudio Cesa nel Giornale critico della filosofia Italiana, 1980, pp. 40-46 ed in una versione aggiornata al 1987 nel volume a cura di Claudio Cesa e Norbert Hinske in collaborazione con Sonia Carboncini, Kant und sein Jahrundert. Gedenkschrift für Giorgio Tonelli Berna: Peter Lang, 1993, pp. 187-204.
In questa versione ho omesso le numerose recensioni ed alcuni scritti minori, ma ho aggiunto quelli apparsi dopo il 1987; la bibliografia è suddivisa in quattro sezioni in base alla lingua: scritti in Italiano, francese, inglese e tedesco.
Tonelli, Giorgio. 1954. "La formazione del testo della Kritik der Urteilskraft." Revue Internationale de Philosophie:423-448.
"La Kritik der Urteilskraft è nota per essere una delle più oscure opere di Kant; quantunque esista una notevole quantità di studi sull’argomento, ben pochi di essi valgono a gettare qualche raggio di luce su tale amalgama di materiale almeno in apparenza eterogeneo e contradditorio. — La ragione di ciò è la stessa, per cui la maggioranza degli scritti di storia della filosofia è di scarso aiuto alla comprensione dei testi che essi riguardano: e cioè che si tratta il più sovente di divagazioni speculative sull’argomento, da un preteso punto di vista teorico, piuttosto che di una paziente ricostruzione delle idee dell’autore nel loro esatto significato storico in rapporto al loro tempo, nelle loro origini e nel loro sviluppo. E la situazione resterà invariata fino a che non sarà chiaro a tutti che un testo, filosofico non è uno scritto esoterico da affrontarsi con un presunto dono di illuminazione interiore, ma è nè più nè meno che uno speciale tipo di documento delle idee di una persona e di un’epoca, che deve essere esaminato secondo la mentalità ed il metodo filologici e storici propri di ogni ricerca di storia delle idee.
La mancanza di un simile tipo di considerazione si fa particolarmente sentire a proposito della Kritik der Urteilskraft. Di essa, come di tutti gli altri scritti di Kant, esistono ottime edizioni critiche, ma la questione della formazione e della cronologia interna del testo è stata quasi completamente negletta. Tale problema è tanto più importante in quanto principalmente da indicazioni ottenute per questa via possiamo sperare di comprendere qualcosa della connessione del vario e discordante materiale che essa contiene. Quasi tutti gli interpreti se ne sono accorti, ma essi hanno in generale fornito giustificazioni teoretiche non documentate e in generale del tutto immaginarie per la volta a volta affermata o negata coerenza fondamentale dell’opera. Ricordiamo che i testi di Kant presentano tutti molto chiaramente segni ben conservati di una stratificazione successiva non eliminata da una rielaborazione finale; i più chiari esempi di ciò sono la Kritik der reinen Vernunft, la Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, e la Kritik der praktischen Vernunft, la cronologia interna delle quali è stata più o meno studiata.
La possibilità di un tale tipo di ricerca in Kant è data dal suo modo di redigere, dipendente sia dal suo carattere che dalla sua epoca. Egli stesso ce ne ha lasciato una testimonianza, conservata nella Anthropologie Brauer (Collegium Antropologicum [sic]... gesammelt von Th. Fr. Brauer... 13 Oct. incept. 1779) proveniente dal 1779-1780. — Se si vuole scrivere un’opera, egli dice, è necessario lasciar libero corso alla immaginazione. Bisogna anzitutto fissare bene in testa l’idea principale, poi frequentare la società, o leggere libri divertenti su soggetti del tutto diversi — l’immaginazione ne è cosi eccitata, e parecchie idee nascono." (pp. 423-424)
(...)
"La base di tale analisi è, abbiamo detto, filologica, e cerca di evitare per quanto è possibile l’appello ai molto dubbi « inneren Gründe ». Ma bisogna onestamente precisare che non ci si può fondare qui sul fatto lingua in senso stretto, cioè su di una semplice statistica dell’uso dei vocaboli e delle forme grammaticali e sintattiche; la quale ricerca non darebbe nel caso nostro, come è evidente dato il breve periodo esaminato (dal 1787 al 1790), alcun frutto. Si tratta invece di isolare una serie di termini tecnici caratteristici, mediante una analisi molto elementare che ciascun lettore attento può agevolmente ripetere, ed osservarne l’impiego nelle diverse parti della Kritik der Urteilskraft, supponendo che, data appunto la loro importanza concettuale, la loro assenza o presenza sia indizio abbastanza sicuro per definire le diverse fasi dello sviluppo del pensiero di Kant.
Premesso questo, appare quanto sia vano cercare di creare artificialmente in molte opere di Kant una inesistente congruenza assoluta di tutti i particolari, e insieme come sia ingiustificato il trasformare le evoluzioni e le oscillazioni in inconseguenze e contraddizioni." (pp. 426-427).
———. 1955. "Kant, dall'estetica metafisica all'estetica psicoempirica. Studi sulla genesi del Criticismo (1754-1771) e sulle sue fonti." Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino.
"Le ricerche, dei cui risultati in questo volume non esponiamo che una prima parte, nacquero, diversi anni or sono, da un problema di cui non potevamo prevedere, allora, la vasta portata. Il nostro interesse verteva sull’esatto significato della terza Critica kantiana. Cioè principalmente sulla questione del rapporto dei diversi e, apparentemente almeno, eterogenei motivi contenuti in essa, e del rapporto tra essa e gli altri scritti di Kant. Il che equivale, in breve, a domandarsi perché Kant abbia scritto una Critica del Giudizio, e perché l'abbia scritta proprio in quel modo.
La nostra intenzione era ed è, si è già capito, puramente ed esclusivamente storica. Ove con questo s’intenda però anche ed eminentemente la storia di quell’aspetto della cultura che è il pensiero speculativo, nella sua viva connessione con gli altri aspetti delle idee e degli eventi della persona e del tempo studiati.
Un simile atteggiamento ci ha, come è ovvio, portato a cercare una soluzione del nostro problema in una ricostruzione dello sviluppo delle idee, e principalmente delle idee estetiche, di Kant, anteriormente al 1790.
Questo ci ha avviato a considerare la personalità di Kant filosofo principalmente da un punto di vista lasciato finora quasi completamente in ombra: quello da cui egli appare il depositario e il rielaboratore della tradizione della Psychologia empirica fondata da Wolff e dai suoi seguaci e avversari, con le sue implicazioni e corrispondenze in sede, tra l’altro, di logica.
Tra i risultati delle nostre ricerche, uno dei più rilevanti è forse che il considerare il nostro Autore da una tale quinta prospettica, opportunamente combinata a quelle tradizionali, ci avrebbe permesso di superare il dilemma esegetico, ormai inveterato nella Kantforschung, tra Kant als Erkenntnisstheoretiker e Kant als Metaphysiker, permettendoci di rintracciare un importante motivo unitario nella complessa personalità kantiana, che congiunga i suoi interessi metodologici da un lato e ontologico-metafisici dall’altro, traducendoli sul piano comune dell’epistemologia.
Non vogliamo affermare di avere così rintracciato il centro della personalità teoretica di Kant, ma un centro non meno importante degli altri, trascurato in generale sinora dagli storici, che hanno avuto il torto di prendere troppo alla lettera la polemica del Kant critico contro la psicologia, negligendo così di considerare quanto egli di fatto dovesse a tale scienza.
Siamo stati dunque condotti a ricercare i rapporti tra lo sviluppo delle idee estetico-psicologiche di Kant, e quello delle sue idee gnoseologiche, logiche, metafisiche, e morali. Andavamo incontro a dei risultati di cui noi stessi eravamo i primi ad essere sorpresi: venivamo portati ad un riesame di buona parte delle principali questioni della filosofia kantiana, che apparivano spesso rischiarate da una luce totalmente diversa da quella tradizionale. Venivamo così condotti ad una revisione e ad una riformulazione di molte delle idee correnti sulla carriera filosofica di Kant, che, integrate alle altre prospettive più tradizionali, vogliono ormai essere un elemento indispensabile alla comprensione globale della genesi del criticismo.
Esponiamo così nel presente volume un primo segmento temporale dei filoni studiati. Incontriamo in Kant, intorno al 1754, i primi sparsi accenni di estetica, la cui importanza è, in tale momento, puramente subalterna. Assistiamo quindi ad un graduale spostamento di contenuti e di visuali che porta il motivo estetico-psicologico, nell’ambito della evoluzione generale della personalità kantiana, a divenire sempre più importante e, almeno ad un certo momento, assolutamente dominante. Ed è un momento di non scarso rilievo, perché si tratta nientemeno che della rivoluzione dell’anno 1769, il cui interrogativo ci pare finalmente di aver chiarito. Con l’esame della parte avuta da una tale problematica nella elaborazione della Dissertatio del 1770, la cui interpretazione ne esce più o meno capovolta, concludiamo questa sezione delle nostre ricerche. Speriamo di poter dare presto alle stampe il resto dei nostri risultati." (Prefazione, pp. 1-2).
(...)
"IV. I nostri risultati. — Vogliamo ora richiamare brevemente l’attenzione sui principali punti a proposito dei quali il nostro lavoro presume apportare un contributo originale.
In generale, saranno utili agli studiosi di letteratura comparata e di filosofia settecentesca le indagini particolari ambientali che abbiamo dedicato a molti concetti caratteristici. Basti ricordare quelli di bellezza intellettuale, di grazia, di individuo, di subordinazione, di giuoco e molti altri. Ci è inoltre occorso di mettere in luce diverse importanti personalità della storia dell’estetica, ingiustamente trascurate dagli studiosi contemporanei. Ricordiamo solo Leone Ebreo, [Antoine Gombaud, Chevalier de] Mère, [François] Cartaud de la Vilate.
In particolare e rispetto a Kant, abbiamo tentato nel primo capitolo di mostrare l’interesse di certe sue dottrine estetiche giovanili, normalmente trascurate, come contenenti degli interessanti germi di sviluppi posteriori.
Nel secondo capitolo abbiamo fornito la più ampia analisi e ricostruzione culturale esistente dei motivi fondamentali delle Beobachtungen [Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime], compiendo un passo decisivo verso una valutazione globale dell’operetta giovanile di Kant. Abbiamo dedicato speciale cura alla delimitazione degli influssi, particolarmente inglesi e tedeschi, ossia del ruolo giocato principalmente da Shaftesbury, Hutcheson, Mendelssohn, Cartaud de la Vilate, oltre che Rousseau e forse anche Burke.
Abbiamo inoltre analizzato le Bemerkungen [alle Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime] nel modo più ampio che sia stato sinora fatto: ne sono emersi dei motivi, specialmente morali, sinora trascurati.
Nel terzo capitolo siamo venuti anzitutto rivedendo e precisando, mediante una più precisa aderenza alle Riflessioni e una più ampia ricostruzione dell’ambiente, le teorie del Baeumler sui rapporti tra estetica e logica in Kant e sulla questione dell’individuo e del passaggio tra universale e singolo. Il nostro apporto è stato principalmente caratterizzato da un approfondimento del rapporto tra Kant, Baumgarten e Lambert. Abbiamo mostrato, contro il Baeumler (1), l’influenza della Aesthetica del primo sull’evoluzione della mentalità kantiana. Abbiamo poi messo in luce l’importanza capitale della Logica del Crusius, di cui non era stato studiato che l’influsso su Kant rispetto alla metafisica (Max Wundt, Kant als Metaphysiker. Ein Beitrag zur Geschichte der deutschen Philosophie im 18. Jahrhundert, Stuttgart, 1924, Heimsoeth, Metaphysik und Kritik bei Chr. A. Crusius, Berlin 1926).
Abbiamo quindi ricostruito una fase transizionale sinora ignorata della estetica kantiana, quella '65-'69 e analizzato più a fondo sin nei più sottili motivi la fase ’69-’71, trovando spiegazioni nuove per diversi suoi atteggiamenti.
Questo ci ha portato a ricostruire una fase totalmente trascurata ed assai interessante della morale di Kant, quella ’69-'70; il cui legame con l’estetica dello stesso periodo è uno dei grandi motivi unitari del pensiero kantiano che ci è stato dato di mettere in luce. E abbiamo rintracciato in Crusius e Mendelssohn l’ispirazione di tali dottrine.
Finalmente, nel quarto capitolo abbiamo aumentato il corredo di fonti delle dottrine gnoseologiche precritiche; anche qui è emersa preponderante l’influenza del Crusius logico. Abbiamo proceduto ad una reinterpretazione, nei rapporti dell’estetica, di diverse operette di Kant Abbiamo posto l’accento sulla spesso trascurata Nachricht (2), restituendole la sua originalità e il suo valore programmatico; modificato l'inquadramento e proposto nuove istanze esegetiche per lo scritto sulle Gegenden (3); ricostruito la totalmente ignorata e fondamentale fase gnoseologica del ’69, avanzando una ipotesi esatta per spiegare la grande rivoluzione intercorsa nel pensiero di Kant; studiate le egualmente trascurate Riflessioni della fase ’69-’70; capovolto la interpretazione tradizionale della Dissertatio, che da scritto d’avanguardia viene ad essere considerato fondamentalmente come un ripiegamento su posizioni più prudenziali nei confronti della rivoluzione del ’69; chiarito e reinterpretato, alla luce del materiale precedentemente raccolto, una serie dei concetti e degli atteggiamenti fondamentali della Dissertatio stessa; e finalmente rintracciato un altro grande motivo unitario del pensiero kantiano, nelle rispondenze tra gnoseologia ed estetica (nonché morale), quale agente degli avvenimenti del '69 e del ’70. Una delle più importanti manifestazioni di tale motivo unitario si riscontra nella assodata derivazione della teoria della sensibilità della Dissertatio dall’estetica come critica del gusto. Questo ci mette sulla via di una reinterpretazione, che tenteremo in altra sede, della Estetica Trascendentale della Kritik der reinen Vernunft, rintracciandone i nessi con la contemporanea e successiva Critica del Gusto di Kant.
Il quadro del più nevralgico periodo del Kant precritico ne esce così profondamente mutato.
In generale, i motivi che veniamo perseguendo ci scoprono un caso assai caratteristico ed interessante nella storia delle idee: cioè il caso di un motivo, quello estetico, che mantenendo immutato il proprio oggetto esteriore (cioè il bello naturale e d’arte), muta profondamente il proprio apparato concettuale e terminologico, la propria importanza, il proprio posto e la propria funzione nella struttura concettuale speculativa di Kant, e nella sua dinamica, e sinanco il suo valore nell’ambito della personalità di Kant uomo. Nata marginalmente dalla tradizione metafisico-psicoempirica, l’estetica ha all’inizio un posto secondario. Per venire poi subitamente distaccata, sulle orme degli inglesi, dalla tradizione precedente, ed essere inserita in quella antropologica e morale; perdendo così quasi completamente contatto col mondo speculativo di Kant, per occupare invece la ribalta di Kant Philosoph für die Welt e delle razionalizzazioni semiletterarie dei suoi pratici atteggiamenti sociali.
Riassorbita poco dopo nel mondo speculativo della evoluzione ulteriore di Kant teoretico, e da essa inserita in senso nuovo nella tradizione psicoempirica, l’estetica è improvvisamente investita, in tale connubio, da una impressionante dinamica interna, che conduce, nel ’69, ad una brusca ristrutturazione di tutto il mondo speculativo di Kant, ad una esplosione da cui poco esce che non sia transvalutato o modificato nel breve giro di alcuni mesi.
Dopo di ciò, il focus dell’interesse di Kant, e il centro evolutivo del suo pensiero, si spostano ad altri argomenti che evolvono indipendentemente, e l’estetica entra in una fase nettamente conservatrice che durerà fino al ’75-’76, mostrando appena i germi delle grandi rivoluzioni successive.
Assistiamo del pari a diverse fasi di integrazione della personalità speculativa di Kant. Fino al ’69 i vari filoni del suo pensiero si sviluppano in relativa indipendenza tra loro, o tutt’al più a coppie: metafisica e morale, estetica e metafisica, morale ed estetica, gnoseologia ed estetica. Ma nel ’69 un motivo unitario, non sappiamo fin dove chiaramente formulato, e fin dove invece puramente riducibile ad un atteggiamento del background o forma mentis (non ci pare che l’aggettivo « subconscio », con le sue gravi implicazioni, sia qui appropriato, o che almeno sia imprudente usarlo), viene a dominare ed a produrre uno sviluppo contemporaneo, coerente e interconnesso di estetica, gnoseologia, e morale; quindi il potenziale dinamico si concentra nell’indagine gnoseologica, e gli altri due motivi passano, per un certo periodo, all’immobilità di un secondo piano. Abbiamo tentato, per quanto ci è stato possibile in base al materiale a disposizione, alle ricerche collaterali, e agli strumenti mentali che possediamo, di fornire alcune spiegazioni di tali eventi.
Di passaggio, ci è avvenuto di smontare, o almeno di intaccare, il mito di un Kant fanatico ammiratore della natura, luogo comune della Kantforschung. Le sue espressioni in proposito sono state mostrate quali derivazioni di puro riflesso di una moda letteraria in gran voga nell’ambiente.
Al contrario, abbiamo notato che un reale interesse personale e sociale di Kant, quello per la «bella conoscenza» o per la popolarità, veicolo di educazione per un più largo strato della popolazione, e di una maggior comprensione tra gli uomini, ha certo contribuito a spingerlo ad affermare l’universale validità delle rappresentazioni umane come fondata su fattori estetici." (pp. 11-14)
(1) Alfred Baeumler, Kants Kritik der Urteilskraft. Ihre Geschichte und Systematik, Band 1, Halle: Niemeier 1923, p. 115.
(2) Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen im Winterhalbenjahre von 1765-1766 («Akademie Ausgabe », Bd. II).
(3) Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume, 1768 («Akad. Ausg.», Bd. II).
———. 1956. "L'origine della tavola dei giudizi e del problema della deduzione delle categorie in Kant." Filosofia no. 7:129-138.
Tradotto in tedesco come: Die Voraussetzungen zur Kantischen Urteilstafel in der Logik des 18. Jahrunderts in: Friedrich Kaulbach, Joachim Ritter (Hrsg.), Kritik und Metaphysik. Studien. Heinz Heimsoeth zum 80. Geburtstag, Berlin: Walter de Gruyter, 1966, S. 134-158.
"È noto come il problema della formazione delle tavole dei giudizi e delle categorie di Kant sia uno dei più delicati e discussi della Kantforschung. Il de Vleeschauwer (1) ha riassunto egregiamente le controversie in proposito, tentando una soluzione personale del problema. Secondo quanto egli viene a concludere, la tabella delle categorie kantiana deriverebbe in parte da Aristotele, in parte da Hume, in parte da Newton (op. cit., pp. 219-20) (2). Kant non avrebbe semplicemente tratto la tavola delle categorie da quella dei giudizi, ma avrebbe sviluppato contemporaneamente entrambe (p. 232). La tavola dei giudizi, poi, è tratta, come Kant stesso dichiara, dalia tradizione logica (p. 244). Kant avrebbe modificato le tavole di giudizi allora correnti, aggiungendo a ciascuno dei tipi generali di giudizio una terza forma speciale (ibidem). Il de Vleeschauwer presenta quindi in un quadro sinottico le tabelle di giudizi elaborate da diversi predecessori e contemporanei di Kant, da Melantone a Wolff, sulle quali i precedenti Kantforscher avevano già richiamato l’attenzione. Un esame di tale quadro sinottico mena il de Vleeschauwer alla evidente conclusione, che Kant non segui in particolare nessuna delle tabelle che aveva a disposizione, ma che operò una specie di sintesi tra esse. Ciò che resta perfettamente misterioso è il principio, mediante il quale Kant avrebbe operato tale sintesi selettiva, ovvero la ragione che lo spinse ad elaborare la sua particolare tabella di categorie.
Chiedendoci quale potrebbe essere la soluzione di simile problema, ci siamo immediatamente resi conto della non completezza del quadro sinottico presentato dal de Vleeschauwer. Anzitutto citare Melantone come unico precedente della filosofia del ’700 tedesco è fare un torto a quella legione di aristotelici del XVII secolo, la cui importanza, ancora lungi dall’essere riconosciuta appieno, consiste principalmente nell’aver mantenuto in vita e sviluppato, al di fuori e contro gli attacchi del cartesianesimo e dell’empirismo e platonismo inglesi, una tradizione metafisica, senza tener conto della quale è impossibile comprendere sia Leibniz, che il grande idealismo tedesco dei secoli XVIII e XIX.
Ora, gli aristotelici tedeschi del ’600 avevano ampiamente sviluppato sia una logica (e una teoria del giudizio), che una metafisica (con relativa discussione dei concetti, ontologici fondamentali). Vogliamo solo rammentare uno dei padri della filosofia tedesca, il Göckel, il quale, discutendo l’Organo di Aristotele (3), discetta « de Quantitate », « de Qualitate », « de Relatis » (p. es. « Maritas euim non potest esse, nisi & uxor eius fit, et altero intereunte alterum relativum nomine pristino excidit »), « de Alicubi », e « de Aliquando », « de Situ » (« stare, pendere, supra et infra »).
Un’ampia ricostruzione delle categorie e delle forme di giudizio nel ’600 tedesco sarebbe senz’altro un compito interessante, per quanto non privo di difficoltà. Ma dubitiamo molto della sua utilità nei riguardi della ricostruzione del pensiero di Kant, tenendo conto del fatto che Kant stesso ignorava quasi certamente la filosofia tedesca anteriore all’era del Thomasius, e che è persino difficile rintracciare in Kant qualche eco del pensiero dei primi thomasiani, cioè di quelli che precedettero il sorgere della scuola wolffiana. Per quanto sia interessante notare come in tempi già vicinissimi a Kant, tale tradizione perdurasse ancora. Il gesuita tedesco Mayr (4), ad esempio, continua la tradizione aristotelica e tomistica, e menziona illustrandole ampliamente, nella sua Logica, le categorie aristoteliche: substantia, quantitas, relativ, qualitas, actio, passio, ubicatio, duratio, situs, habitus.
Ma a noi basterà, come stiamo per mostrare, completare il quadro sinottico per quello che concerne il XVIII secolo tedesco, per fare un decisivo passo innanzi verso la soluzione del nostro problema. E non intendiamo neppure citare tutti i logici del ’700 tedesco che il de Vleeschauwer trascura, ma solo quelli, da noi selezionati, che presentano uno speciale interesse riguardo a Kant." (pp. 129-130)
(4) Antonio Mayr, S.J.: Philosophia peripatetica antiquorum principiis et recentiorum experimentis conformata. Ingolstadii, 1789, I Logica, 708 sgg.
[Gli autori esaminati nel resto dell'articolo sono:
- Samuel Christian Hollmann (1696-1787) , In universam philosophiam introductio, Vitembergae, 1734, I, pp. 119-135;
- Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), Die Vernunftlehre, [1756] citato dall'edizione di Hamburg und Kiel, 1790;
- Christian August Crusius (1715-1775), Weg zur Gewissheit und Zuverlässigkeit der menschlichen Erkenntniss, Leipzig, 1747 [reprint: Hildesheim: Georg Olms, 1965];
- Christian Wolff (1679-1754), Philosophia rationalis sive logica, Frankfurt und Leipzig, 1728 [reprint: Hildesheim: Georg Olms, 1983];
- Georg Friedrich Meier (1718-1777), Auszug aus der Vernunftlehre, Halle, 1752 [si tratta di una versione abbreviata della Vernunftlehere (1752) su cui si veda: Riccardo Pozzo: Georg Friedrich Meiers "Vernunftlehre": eine historisch-systematische Untersuchung, Stuttgart-Bad Cannstatt: Frommann-Holboog, 2000];
- Johann Heinrich Lambert (1728-1777), Neues Organon, Leipzig, 1764 [traduzione italiana: Nuovo Organo, a cura e con un'introduzione di Raffaele Ciafardone, Bari: Laterza, 1977].
"Ci sembra quindi di aver fornito una spiegazione sufficiente — salvo i chiarimenti complementari che ci proponiamo di dare in altra sede, riguardo al sorgere del Duisburgischer Nachlass [(1755) traduzione italiana: Fondo Duisburg, Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000] — della via seguita da Kant per elaborare la sua tavola di giudizi; e ci risulta che egli non fece che operare una semplificazione della tavola di Crusius, sia eliminandone alcuni elementi che corrispondevano a strutture diverse del suo sistema, sia epurandone il portato metafisico di alcuni titoli (che pur non poteva abbandonare in quanto strettamente corrispondenti a concetti metafisici che gli erano assai cari) col renderne il significato più strettamente logico (17).
Con ciò ci sembra anche di avere compiuto un passo avanti nella spiegazione della genesi della tavola delle categorie. Evidentemente, solo uno studio approfondito del Duisburgischer Nachlass potrà portarci a giustificare i correlati categoriali dei giudizi di quantità e di qualità, e l’importanza assunta per Kant dalle categorie di relazione e modalità. Ma crediamo, intanto, di avere anche addotto elementi atti a chiarire l’apporto alla formazione della tavola delle categorie della scoperta dell’analogia tra concetti puri e giudizi, per quanto cioè le categorie si siano disposte e plasmate secondo uno schema quaternario e tricotomico ispirato a Crusius, e la cui correlazione con alcuni gruppi categoriali già organati da Kant nel Duisburgischer Nachlass è stata certo una ragione, se non la ragione, della costruzione dell’analogia stessa tra categorie e giudizi." (pp. 134-136)
(17) Il problema, come lo abbiamo ricevuto, è molto chiaramente riassunto dal de Vleeschauwer nei termini seguenti: « Kant n’a pas posé en révolutionnaire; il a bien pu avoir l’impression qu’il s’appuyait sur un travail collectif et, quant à l’essentiel, définitif. Il a inventé la relation comme rubrique de jugements, vraisemblablement par analogie avec la table des catégories; il a rompu avec l’habitude (purement formale) de mettre la qualité avant la quantité, mais il n’a inventé aucune forme spéciale de jugement. Toutes le formes dont il parle étaient présentes dans les manuels de l’époque qu’il avait sous la main, mais aucun manuel, par contre, ne renferme le schème, qui est donc une construction personnelle de Kant. Il faut l’attribuer à un schème de catégories antérieurement construit, dont il fallut faire usage pour les jugements afin de faire éclater la parfaite correspondence entre eux. L’étude de notre tableau comparatif indique, d’autre part, combien il est malaisé de dire où s’est adressé Kant pour compléter les lacunes qu’il avait pu remarquer dans la tradition des écoles » (p. 248). Dalla nostra ricerca risulterebbe una maggiore influenza della tavola dei giudizi sulla tavola delle categorie, e sarebbe chiaro che il modello che Kant ha seguito per « colmare le lacune » non è che quello di Crusius. Questa soluzione avvierebbe ad una più piana e storicamente più sicura comprensione del sorgere della tavola dei giudizi, senza dover ricorrere, come ad esempio K. Reich (Die Vollständigkeit der kantischen Urteilstafel, Diss., Rostock.-Berlin, 1932), ad una complicata giustificazione speculativa completamente priva di conferma documentaria.
———. 1957. "Lo scritto kantiano sulla "Vera valutazione delle forze vive" (1747)." Filosofia:621-662.
Ristampato in Elementi... (1959) pp. 1-42.
"Il proposito principale di Kant nei Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte... (1747), quello di risolvere una particolare, per quanto importante, diatriba concernente i principi della meccanica, non ci interessa in questa sede. Ci sembra plausibile il suggerimento di [Mariano] Campo, che Kant abbia scelto tale tema di laurea — uno dei più controversi della fisica del suo tempo, e pel quale erano stati versati veri fiumi d’inchiostro — su suggerimento del suo maestro Knutzen (1). Quello che è significativo dal nostro punto di vista, è di notare alcune posizioni metafisiche che Kant assume nel corso della discussione, nonché alcune distinzioni metodologiche che Kant viene via via facendo, e dalle quali dipende fino ad un certo punto la soluzione stessa, che egli dà del problema centrale.
L’operetta presenta un bell’esempio di esposizione caotica e involuta, soprattutto nella prima delle sue tre parti; i cambiamenti di argomento e le digressioni sono all’ordine del giorno. Comunque, le prime pagine contengono una serie di premesse o fondamenti metafisici della susseguente trattazione, che ci rivelano i primi atteggiamenti di Kant in materia (2).
Il filo del ragionamento, come abbiamo detto, è piuttosto imbrogliato. Kant espone pêle-mêle una serie di concetti metafisici tradizionali, tentando di dar loro una fisionomia personale, ma senza seguire un rigoroso ordine espositivo. Il discorso vaga rimbalzando tra diversi scogli, indulgendo in discontinuità e ripetizioni. Piuttosto che seguirlo passo per passo sarà quindi opportuno tentare di sintetizzare i punti di arrivo." (p. 1)
(...)
"La formazione filosofica di Kant risulta da un fondo aristotelico-leibniziano, cui si vengono combinando degli apporti dei newtoniani e degli avversari di Wolff. Con Wolff stesso la posizione di Kant presenta certo delle analogie, ma si tratta in generale di elementi aristotelici o leibniziani comuni a Wolff e ad altre personalità non wolffiane; se qualche apporto specifico di Wolff ha luogo, Kant pare non rendersene conto; comunque egli mostra contro Wolff una notevole animosità specifica, oltre a difendere più o meno implicitamente delle posizioni nettamente anti-wolffiane, quali l’influsso fisico e la forza di attrazione, nonché la critica al metodo matematico in filosofia e allo spirito di sistema.
La posizione del giovane pensatore è quindi largamente autonoma: è impossibile farlo rientrare in alcuna delle scuole del suo tempo. Da tutti egli attinge liberamente ciò che gli accomoda, respingendo ciò che non lo soddisfa.
Terminiamo ricordando come una recensione alle Forze Vive sia apparsa sui Nova Acta Eruditorum del 1752. Si tratta di un violento attacco; dato il trattamento inflitto da Kant a Wolff nel suo scritto, non c’era invero nulla di meglio da attendersi dai giornalisti lipsiensi.
La recensione si occupa esclusivamente dell’aspetto metafisico dell’operetta: e i due punti messi in discussione sono la natura della forza, e l’arbitrarietà della tridimensionalità dello spazio. Quel misto di influsso fisico e di attrazione newtoniana, da Kant patrocinato, non poteva non destare scandalo; e scandalo ancor maggiore destava la relativizzazione della geometria. I giornalisti lipsiensi pare non si rendano conto che se Kant, nella sua giovanile avventatezza, aveva assunto senza troppa riflessione delle posizioni di punta, non gli mancavano però alcune buone ragioni ed alcuni autorevoli precedenti." (p. 32)
(1) M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, Varese 1953, p. 4.
(2) Questo tipo di redazione involuta ed erratica, che antepone nel testo dottrine cronologicamente posteriori a dottrine che rappresentano una fase speculativa anteriore, senza modificare queste ultime; e che procede esponendo verità parziali per giungere poi a verità definitive, senza modificare in base a queste ultime la struttura delle prime, è una caratteristica di molte opere kantiane, il cui significato storico illustrammo in un nostro articolo: cfr. G. Tonelli, La formazione del testo della « Kritik der Urteilskraft, « Revue Internationale de Philosophie », XXX (1954).
———. 1958. "La tradizione della categorie aristoteliche nella filosofia moderna sino a Kant." Studi Urbinati di Storia Filosofia e Letteratura (Serie B) no. 32:121-143.
"Introduzione.
L’attenzione di coloro che si interessano alla filosofia di Kant si è spesso concentrata sul problema dell’origine storica della tavola delle categorie, che si incontra nella Kritik der reinen Vernunft. Come è noto, la natura delle singole categorie e la loro distribuzione nella tabella si spiega in buona parte attraverso il parallelismo con la tavola dei giudizi, la origine della quale abbiamo avuto occasione di studiare in altra sede (1). Ma restano con ciò ancora aperte altre questioni non prive d’importanza, cioè: da dove siano derivate l’idea che si diano in metafisica alcuni concetti fondamentali irriducibili gli uni dagli altri, e l'esigenza di dedurre rigorosamente tali concetti riducendoli ad una precisa tabella, nonché, per qual via sia giunto a Kant il termine aristotelico ’’categoria”, raramente usato nel XVIÍI secolo.
Alcuni importanti lavori sono stati già dedicati a questo tema: Trendelenburg (2) e Ragnisco (3) scrivevano delle storie della dottrina delle categorie dall’antichità greca sino a Kant ed oltre, Rosmini (4) tornava, più superficialmente, sullo stesso tema, e Heimsoeth (5) concentrava recentemente la sua attenzione sui rapporti tra le categorie di Kant e i termini ontologici di Wolff.
Ciò che ci spinge a tornare sull’argomento è il fatto, che le ricerche di Trendelenburg e Ragnisco diventano molto sbrigative a partire dal XVI secolo, cioè proprio dall’epoca che prelude al pensiero kantiano. Ci proponiamo quindi di riassumere brevissimamente quanto è stato stabilito da tali Autori a proposito dell’antichità e del medio evo, e di allargare la ricerca a partire dal tardo Rinascimento, per renderla vieppiù particolareggiata coll’avvicinarsi al tempo di Kant, e specialmente per quel che riguarda la Germania. Non ci proponiamo che di esaminare alcuni autori più importanti, e di considerare solo alcuni aspetti generali del problema: addentrarsi nella discussione della evoluzione di ogni singola categoria renderebbe il nostro compito enorme, e sarebbe per di più inutile allo scopo che stabilimmo rispetto a Kant. Solo per quel che riguarda la prima metà del XVIII secolo la nostra ricerca aspira ad una certa completezza." (pp. 121-122)
(...)
"Ci sembra quindi di poter affermare, in conclusione, che è estremamente probabile che Kant abbia elaborato la propria dottrina delle categorie riferendosi per diversi rispetti alla dottrina degli aristotelici in materia; dottrina ancora viva in certe tradizioni tedesche ai tempi di Kant, attraverso le quali egli poteva agevolmente risalire ai più importanti testi del secolo precedente concernenti tale soggetto. Simile riferimento ci aiuta sia a comprendere meglio la genesi della teoria kantiana, sia ad apprezzarne alcuni particolari aspetti." (p. 143)
(1) G. Tonelli, L'origine della tavola dei giudizi e del problema della deduzione delle categorie in Kant, Torino 1956 (anche in «Filosofia», 1956-VII, 1).
(2) A. Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Berlin 1846. [traduzione italiana in due volumi separati: Friedrich Adolf Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele, Milano: Vita e Pensiero, 1994; La dottrina delle categorie nella storia della filosofia, Monza: Polimetrica, 2004]
(8) P. Ragnisco, Storia critica delle categorie dai primordi della filosofia greca sino a Hegel, Firenze: M. Cellini 1871.
(4) A. Rosmini-Serbati, Saggio storico sulle categorie e la dialettica, Torino 1883.
(5) H. Heimsoeth, Studien sur Philosophie Immanuel Kants, Köln 1956, Chr. Wolffs Ontologie und die Prinzipienforschung I. Kants, Ein Beitrag sur Geschichte der Kategorienlehre. Vedere anche, dello stesso Autore: Zur Geschichte der Kategorienlehre, in: Nicolai Hartmann, der Denker und sein Werk, Göttingen 1952.
———. 1958. "La polemica kantiana contro la teleologia cosmologica (1754-1756)." Filosofia:633-569.
Ristampato in Elementi... (1959) pp. 43-126.
"Dopo avere evidentemente abbandonato il proposito di continuare lo scritto sulle Forze Vive (1), Kant pubblicava nel 1755 una ponderosa opera cosmologica che ci apprestiamo ora a considerare secondo i nostri speciali interessi: la Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels.
Il proposito generale dello scritto è né più né meno quanto Kant aveva, di passaggio, annunciato qualche anno prima (2): spiegare tutti gli eventi naturali mediante poche leggi universali semplici e comprensibili, riducendo al minimo indispensabile l’intervento divino nella struttura e nel corso del mondo. Principio, di per sé, molto chiaro; ma la cui dimostrazione dà luogo, come c’è da aspettarsi, a parecchi grossi e complicati problemi.
L’opera, infatti, copre, direttamente o indirettamente, i più svariati argomenti di metafisica e di cosmologia. La cosmologia sembra però (come la fisica nelle Forze Vive) avere, nella determinazione delle soluzioni particolari, una parte dominante.
L’origine del proposito generale sopra enunciato quale lo si incontra già nelle Forze Vive (3) non è di per sé chiara: è dubbio cioè se esso sia emerso dalle riflessioni sul problema delle forze vive, o se esso risponda, già nel 1747, a un preannunciarsi della problematica della Naturgeschichte. Bisogna però riconoscere che la formulazione datagli nel 1747 (quantunque perfettamente applicabile alla posizione del 1755) è cosi generica, da ammettere le precisazioni più svariate, e eventualmente più discordanti da quelle della Naturgeschichte. Inoltre bisogna riconoscere che l’impostazione di molti problemi è, nella Naturgeschichte, cosi diversa che nelle Forze Vive, che se nel 1747 un corrispondente dei problemi cosmologici particolari del 1755 già esisteva, esso doveva essere in veste ben diversa da quella ricevuta otto anni dopo." (p. 43)
(1) Proposito espresso nella lettera ad Haller (?) del 23 Ag. 1749 (X, 2).
(2) Cfr. il mio precedente studio Lo scritto kantiano sulla « Vera valutazione delle forze vive » (1747), § 49.
(3) Cfr. Lo scritto kantiano cit., §§ 49 e 55. Tale proposito generale si può scindere in due aspetti fondamentali di significato ben distinto: il primo corrisponde alla vecchia massima « principia sine necessitate non sunt multiplicanda », il secondo corrisponde al principio della semplicità delle vie, o della via più breve, nato in una occasione ben precisa, la polemica sulle leggi dell’ottica tra Fermat e Clerselier (cfr. Lo scritto kantiano cit., nota 80). Il primo aspetto implica anzitutto che la natura è basata su pochi e semplici principi, i quali sono molto fecondi, dai quali cioè è possibile dedurre l’immensa varietà dei fenomeni naturali; in secondo luogo, che tale immensa varietà di fenomeni è ordinabile in tipi, ovvero in un sistema di leggi, e non è una infinita varietà caotica; perché la natura, sebbene presenti un grandissimo numero di tipi di fenomeni differenti, si comporla rispetto ad ogni tipo di fenomeni sempre nello stesso modo, in maniera semplice e costante (dando luogo cioè a leggi naturali e non a una sequela di eventi singoli in cui non è possibile generalizzare nulla). Il secondo aspetto, particolarmente sottolineato da Leibniz e Malebranche, implica che la natura, in ciascuno dei suoi fenomeni, si comporterà sempre nella maniera più semplice, ovvero sceglierà la via piu breve per raggiungere un certo effetto (lex parsimoniae): da ciò Maupertuis svilupperà poi il principio della minima quantità d’azione. In effetti, il secondo aspetto non è probabilmente che uno sviluppo del primo, il quale viene in generale insieme sostenuto da coloro che sostengono il secondo, p. es. Fermat, Leibniz, Malebranche, onde di fatto la distinzione dei due aspetti talora è assai difficile. In Kant, nella Forze Vive, sono presenti entrambi gli aspetti; nella Naturgeschichte invece Kant si fonderà principalmente sul primo aspetto. Ci chiedemmo altrove quale fosse stata l’origine della posizione kantiana in proposito nella Forze Vive, posizione che poi divenne d’importanza centrale nella Naturgeschichte sotto l’influenza di certi testi di Maupertuis, che sostenevano entrambi gli aspetti del principio (cfr. § 15 e Lo scritto kantiano ecc., note 80 c 87); testi che però erano apparsi posteriormente alla Forze Vive.
Sarà quindi opportuno accennare a qualche altro precedente di tali dottrine, per comprendere più esattamente la posizione di Kant. R. Boyle, in A free inquiry into the vulgarly received Notion of Nature (Works, London 1744, IV, p. 404) accoglie il principio «Natura semper agit per vias brevissimas », ma limitandolo; più in là il principio sembra acquistare un significato anche piu ampio (p. 417): « And it seems very suitable to the Divine Wisdom, that is so excellently displaved in the fabrick and conduct of the universe, to imploy in the world, already framed and compleated, the fewest and most simple means, by which the phaenomena, designed to be exhibited in the world, couìd be produced ». Newton stesso, come vedemmo (Lo scritto kantiano ecc., nota 80) raccomandava di non moltiplicare inutilmente le cause dei fenomeni naturali, e assicurava (cfr. nota 54 del presente studio) che i fenomeni naturali derivano da due o tre leggi universali, e che il corso della natura è semplice e uniforme. Wolff e Crusius accettavano la lex parsimoniae (cfr. Joh. G. H. Feder, Institutiones Logicae et Metaphysicae, Göttingcn 1781, § 60; Logik und Metaphysik, Göttingen 1786, p. 319). Castel affermava la semplicità della natura (Traité de Physique, Paris 1724, I, p. 380); Privat de Molières sosteneva che non bisogna moltiplicare i principi senza necessità, e che bisogna dedurre gli effetti naturali dalle supposizioni più semplici (Leçons de Physique, Paris 1734, I, p. 3); Joh. Bernoulli ribadiva il principio della semplicità: la natura non fa nulla invano (Opera omnia, Lausannae & Genevae 1742, IV, p. 24).
Si può giungere quindi alla conclusione che il principio, quale fu da Kant enunciato nella Forze Vive, rispondeva ad una opinione generica molto diffusa, e che egli lo impiegò solo estrinsecamente in funzione antiwolffiana, poiché Wolff stesso in certo modo lo accettava, soprattutto come lex parsimoniae. Il contenuto intrinsecamente antiwolffiano del principio derivò quindi poi dall'influsso di Maupertuis. È curioso però notare come Mairan e più tardi D’Alembert (cfr. note 38 e 41 del presente studio) accusassero (e forse non senza fondamento) il principio della via più semplice e più breve di introdurre le cause finali in fisica, mentre tale principio era invece sostenuto da antiteleologisti dichiarati, quali Malebranche, Maupertuis e Kant. Giacché siamo in argomento, vogliamo accennare a qualche sviluppo della questione. Notissima è la polemica tra Maupertuis e König sulla questione della paternità del principio della minima azione, e le discussioni a cui presero parte D’Arcy, D’Alembert e Euler (cfr. P. Brunet, Étude historique sur le principe de la moindre action, Paris 1938, soprattutto pp. 26 sgg.). Il Gesetz der Sparsamkeit si ritrova in H. S. Reimarus (Abhandlungen von den vornehmsten Wahrheiten der natürlichen Religion, Hamburg [1754] 1781, p. 288 sgg.); J. B. Scarella enuncia il principium brevissimae viae (Physicae generalis methodo mathematica tractatae... Tomus III, 1757, p. 420), che anche G. Ploucquet riprende (Fundamenta philosophiae speculativae, Tubingae 1759, § 812), che ricorre in Lambert c Buffon (cfr. Feder, loc. cit.), ed al quale J. N. Tetens dedica un apposito saggio (Commentatio de principio minimi, Buezzovii et Vismariae 1769). Vedere inoltre, in generale, J. F. Montucla, Histoire des Mathématiques, III, Paris 1802, p. 643 sgg., e A. Kneser, Das Prinzip der kleinsten Wirkung von Leibniz bis zur Gegenwart, Leipzig 1929; su Leibniz, L. Couturat, La logique de Leibniz, Paris 1901, p. 229; su Malebranche, M. Guéroult, Malebranche, T. II, 1, Cap. VII, § 10 (di prossima pubblicaz. [1958]); su Maupertuis, P. E. B. Jourdain, Maupertuis and the Principle of least action, «Monist», XXII (1912); M. Guéroult, Dynamique et Métaphysique leibnitiennes, Paris 1934, pp. 215 sgg.; R. Dugas, Le principe de la moindre action dans l'oeuvre de Maupertuis, « La Revue Scientifique », LXXX (1942); su Kant, J. Vuillemin, Physique et métaphysique kantiennes, Paris 1955, p. 100 (nota). Per l’aspetto del principio che si riferisce alla costanza e uniformità (semplicità) delle leggi della natura, vederne l’ampia trattazione in G. Tonelli, Kant, dall'estetica metafìsica all'estetica psicoempirica, Torino 1955 (« Memorie della Accademia delle Scienze di Torino », Serie 3, Tomo 3, P. 1), § 87.
———. 1959. Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768. Saggio di sociologia della conoscenza. Torino: Edizioni di "Filosofia".
Indice: Prefazione V; Introduzione XV-XXIII; Lo scritto kantiano sulla "Vera valutazione delle forze vive" 1; A. Motivi metafisici 1; B. Motivi metodologici 18; La polemica kantiana contro la teleologia cosmologica (1754-1756) 43; A. "Storia Naturale e teoria generale del cosmo" (1755): Motivi metafisici 43; B. Motivi metodologici 79; C. Gli scritti minori 91; Il primo tentativo ontologico (1755) 127; A. Motivi metafisici nella "Nova Dilucidatio"127; B. Motivi metodologici nella "Nova Dilucidatio"146; Appendice: La dottrina dell’ente e delle sue determinazioni nelle scuole tedesche 151; Kant dal 1756 al 1762 173; A. La "Monadologia physica" (1756) 173; B. Lo scritto sul "Moto e la Quiete" (1758) 193; G. Le "Considerazioni sull'ottimismo" (1759) 198; D. Lo scritto sul Sillogismo (1762) 204-236.
"Presentiamo in questo libro il frutto di una nuova serie di ricerche sulla formazione della filosofia kantiana. Queste ricerche sono in un certo senso parallele e complementari a quelle da noi precedentemente pubblicate sotto il titolo: Kant, dall'estetica metafisica all'estetica psicoempirica - Studi sulla genesi del criticismo (1754-1771) e sulle sue fonti, Torino 1955 (Memorie della Accademia delle Scienze di Torino, Serie 3°, Tomo 3°, Parte II). Ciò non toglie che il presente libro costituisca un tutto perfettamente autonomo.
L'impossibilità di procedere verso lo studio del Kant più maturo senza avere ben chiari i termini del suo sviluppo giovanile è stata da lungo tempo compreso dalla Kantforschung. L’ultimo, e il miglior risultato come monografia d’insieme, in questo senso, è dato dal recente lavoro di M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, I-II, Varese 1953, che copre il periodo fino al 1768.
Nel nostro lavoro sopra citato abbiamo approfondito lo studio sopratutto dei motivi estetici e psicologici (e in parte antropologici) di Kant precritico, che non ci parevano essere stati adeguatamente trattati nelle numerose precedenti ricerche. L'ultimo capitolo di tale lavoro conteneva anzitutto un rapido sguardo sulla metafisica e metodologia kantiana sino al 1768 ispirato alle monografie esistenti sull'argomento, quindi il primo tentativo di una ricostruzione della rivoluzione del 1769 fondata su materiali sinora mai studiati, e una reinterpretazione della Dissertatio da tale punto di vista.
Procedendo ulteriormente nello studio del pensiero kantiano, ci sentimmo tosto insoddisfatti del quadro offertoci dalle precedenti monografie, per quanto importanti e valide esse fossero, della metafisica e della metodologia kantiana fino al 1768, e ci decidemmo a rivedere a fondo per nostro conto tali questioni. Il presente libro contiene una esposizione completa dello sviluppo del pensiero di Kant dagli inizi al 1768, per quanto concerne la metafisica e la metodologia (che comprende anche la logica), eccetto il problema metodologico dei rapporti tra universale e singolo, che ci sembra essere stato adeguatamente trattato nel nostro precedente lavoro. In effetti, buona parte del presente libro concerne problemi di filosofia naturale se non addirittura di storia della scienza: abbiamo dovuto infatti studiare a fondo anche molti aspetti di Kant Naturforscher, che sono in qualche modo collegati col suo pensiero metafisico; mentre abbiamo tralasciato lo studio di quelle sue dottrine fisiche e cosmologiche che non interessano che la storia delle scienze naturali.
La completezza della nostra monografia non esigeva che ripetessimo per disteso certi risultati delle ricerche precedenti; spesso li abbiamo riassunti rapidamente, rinviando in proposito sopratutto al volume di Campo, che li espone e completa sempre con eccellente perspicuità; ma questo concerne in generale dei particolari estrinseci, o dei riferimenti ad aspetti di Kant precritico esorbitanti dai limiti precisi della nostra ricerca." (pp. V-VI)
———. 1959. "Il primo tentativo ontologico di Kant (1755)." Filosofia:241-274.
Ristampato in Elementi... (1959) pp. 127-171.
La Nova Dìlucidatio veniva redatta, come il De Igne, per scopi accademici; ma la prova da superare era più importante, e l’argomento scelto più impegnativo. Per la prima volta Kant si allontana dai consueti argomenti di filosofia naturale, per affrontare di petto i più ardui problemi ontologici. Ci è impossibile dire se questo nuovo orientamento non abbia avuto come ragione contingente il consiglio di qualche suo patrono accademico: ma sta di fatto che tale interesse più puramente metafisico, comunque esso sia stato suscitato, doveva ormai diventare profondo e stabile accanto agli altri, vecchi e nuovi, naturalistici ed estetico-antropologici; e affermarsi, nel decennio successivo, assieme al motivo psicoempirico, come il centro della personalità scientifica di Kant.
Bisogna però notare che l’urgenza di certi problemi metafisici era stata sentita da Kant sin dall’inizio, e che la discussione di essi aveva serpeggiato attraverso le maggiori questioni degli scritti di filosofia naturale. Il fatto che ora l’ontologia si imponga in primo piano può dunque in parte derivare da un bisogno, finalmente sentito da Kant, di discutere a fondo certe premesse, dalla esatta determinazione delle quali egli aveva visto cosi strettamente discendere l’interpretazione cosmologica del mondo.
Sarebbe però un errore considerare la Nova Dìlucidatio come un semplice approfondimento dei problemi metafisici che abbiamo sin qui incontrati. Se la mentalità generale che regge quei problemi e la Nova Dìlucidatio, è fondamentalmente la stessa, o se per lo meno (come mostreremo più oltre) nello sviluppo di tale mentalità non vi è frattura, non bisogna dimenticare che i problemi metafisici precedenti saranno, invero, discussi nella nuova sede, ma solo in una parte di essa; e che si affermeranno invece ivi molti problemi ontologici, nuovi per la penna di Kant. Sarà ora nostro compito cercare di chiarirne la derivazione.
Vogliamo aggiungere qualche parola sulla forma letteraria dell’operetta: come quattro delle cinque dissertazioni preparate da Kant per necessità accademiche, essa è redatta in latino, a onor del vero irsuto e claudicante oltre ogni dire. Essa è, come le tre sorelle, divisa in brevi paragrafi, e, come le due più prossime nel tempo, ordinata in proposizioni e dimostrazioni more geometrico, nel più arcigno stile scolastico. Non è certamente un caso che Kant abbia redatto in tedesco, e in una più sciolta forma saggistica, tutte le opere e operette non destinate ad essere presentate amplissimae facultati philosophicae (1). La forma scolastica sapeva troppo del passato, mentre l’essay era la moda d’avanguardia dell’ambiente di Kant giovanile, sulle tracce dei francesi e degli inglesi. (Vedere anche § 27). Non è dunque per libera scelta che Kant stese la Nova Dilucidatio in questo modo; né sappiamo poi addirittura se in generale avrebbe scritto tale opera se fosse stato libero di scegliere (2)." (pp. 127-128)
(1) Unica eccezione saranno i Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, scritti more geometrico, trattandosi di un’opera di filosofia naturale. Si noti però che l’opera sulle Forze Vive, dissertazione di dottorato, era stata redatta in tedesco, ma secondo l’ordinamento per brevi paragrafi accompagnati da una indicazione di contenuto marginale proprio dei trattati scolastici tradizionali tedeschi.
(2) Cfr. K. Vorländer, I. Kant, der Mann und das Werk, Leipzig 1924, I, p. 94.
———. 1959. "Eclettismo di Kant precritico." Filosofia:560-573.
Ripreso ed ampliato in Elementi... (1959) pp. 173-192.
"Pochi mesi dopo la conclusione della Nova Dilucidatio, Kant presentava alla Facoltà Filosofica della Università Albertina una nuova dissertazione, intitolata Metaphysicae cum geometria iunctae usus in philosophia naturali, cuius specimen I continet monadologiam physicam, necessaria per permettergli di ottenere un insegnamento effettivo come Magister o libero docente al posto del defunto M. Knutzen (cfr. I, 579).
L’atteggiamento metodologico enunciato nella prefazione dell’opuscolo (I, 475-76) è assai chiaro: la filosofia naturale deve, per non perdersi in vane elucubrazioni, fondarsi sull’aiuto dell’esperienza ed aiutarsi mediante la geometria; questo tutti lo riconoscono, ma alcuni si rifiutano di ammettere altre cose che quelle che experientiae testimonio immediate innotescunt; in questo modo è invero possibile exponere le leggi della natura, ma non l’origine e la causa di tali leggi.
Kant allude qui evidentemente al dichiarato agnosticismo metafisico di Newton (1).
Per quest’ultimo scopo, è necessario giovarsi della metafisica, che sola può far conoscere le cause prime e la natura vera e propria dei corpi, che stanno alla base dei fenomeni esperibili.
Una simile presa di posizione è, dopo quanto abbiamo visto precedentemente, comprensibile senza fatica. Se, infatti, nelle Forze Vive Kant proclamava la superfluità dell’esperienza, egli sosteneva al tempo stesso quella distinzione tra geometria e metafisica, che qui è chiaramente mantenuta.
La Naturgeschichte implicitamente, e il De Igne esplicitamente, facevano invece valere energicamente, in senso newtoniano, la necessità di affiancare alla geometria l’aiuto dell’esperienza, sembrando lasciar da parte la metafisica, che però di fatto non mancava di ispirare numerose considerazioni fondamentali. Abbiamo giustificato altrove un simile cambiamento di prospettiva (2)." (p. 173)
(1) Cfr. G. Tonelli, La question des bornes de l'entendemenl humain au XVIIIe siècle, et la genèse du criticisme kantien, particulièrement par rapport au problème de l'infini in corso di stampa, § 5.
(2) Cfr. Cap. II, § 71.
———. 1959. "Bibliografia degli appunti dei corsi universitari tenuti da Kant, sinora pubblicati e della letteratura pertinente." Giornale critico della filosofia italiana no. 38:492-499.
"A. Corsi di lezioni pubblicati integralmente o per estratti (1).
N.B. I seguenti Corsi di lezioni sono citati nell’ordine cronologico stabilito dalla critica. Accanto ad ogni indicazione si troveranno i rinvii alle monografie e studi che stabiliscono la datazione, e che si occupano in generale delle altre questioni del testo o di esegesi. Qualora le datazioni proposte siano parecchie, è stata scelta la più attendibile, tenendo conto dei risultati degli studi più recenti, ma vengono addotte anche le altre. Una discussione, caso per caso, sulla datazione prescelta è qui impossibile, sia in quanto esorbita dai compiti di questa bibliografia, sia perché sarebbe utile solo se fondata su di un contatto diretto coi manoscritti, ora purtroppo inaccessibili.
Tale datazione è quindi qui proposta a puro titolo indicativo in base agli argomenti addotti dalla critica, raggiungibili sempre mediante i rimandi di cui sopra.
I titoli dei Corsi non sono quelli originali, ma rispondono alla denominazione corrente ormai divenuta tradizionale. Segue il titolo originale, ove esista. Da questa lista sono escluse le lezioni stampate o fatte stampare da Kant stesso e comprese nella Preußische Akademie Ausgabe.
[segue un elenco di 34 testi]
B. Studi principalmente filologici e riguardanti la storia del testo, sulle "Vorlesungen" edite inedite.
[segue un elenco di 67 studi]
(1) La maggior parte degli originali o delle sole trascrizioni esistenti di tali Corsi è andata perduta durante la seconda guerra mondiale. Quelli ancora in possesso della Deutsche Akademie der Wissenschaften verranno editi a cura del valente kantista Dr. G. Lehmann. [cfr. volume XXIV dell'edizione]
———. 1960. "Bibliografia dei corsi universitari tenuti da Kant. Addenda." Giornale critico della filosofia italiana no. 39:160.
[7 studi, da aggiungere ai 67 citati nel precedente articolo].
———. 1975. "Kant e i caratteri delle nazioni." Filosofia:129-138.
"È noto che Kant fu animato, durante il corso dell’intera sua carriera intellettuale, da un vivo interesse per la psicologia empirica o, come allora veniva anche chiamata, per l’antropologia. Questo interesse riguardò anche il campo più specifico di quella che nei nostri giorni è detta psicologia differenziale delle nazioni, cioè lo studio comparato delle caratteristiche psicologiche dei diversi popoli.
Con questo Kant non faceva che continuare una millenaria tradizione culturale, i cui primi documenti conservatici risalgono all’antica Grecia, e i cui cultori furono sia viaggiatori e geografi, sia storici, filosofi e poligrafi. Basti ricordare Erodoto, lo pseudo Polemo, Teofrasto, i fisionomi greci, Plinio il Vecchio, Plutarco, Stefano di Bisanzio. L’enciclopedismo medievale raccolse questa tradizione, che fu sviluppata più tardi da Cusano, Montaigne, Hall, Overbury, Deserpz, de Bruyn, Charron e molti altri, fino a quel classico del genere che è l’Icon animorum di John Barclay (Londra 1614), ove si incontra la tipica affermazione generale: « Saecula pene singula genium habere, diversumque a ceteris. Esse praeterea cuilibet regioni proprium spiritum, qui animas indigenarum, in certa studia et mores quodammodo adiget » (Cap. II) (1).
La tradizione in questione è affiancata da un’altra, ad essa relata: quella del « primitivismo », o della esaltazione del carattere e dei costumi talora della umanità primeva, talaltra di alcuni popoli « selvaggi », in contrasto con la « corruzione » dei popoli civilizzati: anche in questa corrente si definisce, o si esplora, lo spirito di una certa età del genere umano (1’« età dell’oro », il « paradiso terrestre », lo « stato di natura ») o di certe determinate popolazioni (i Germani, gli Indiani d’America, i montanari Svizzeri, ecc.) (p. 129)
(...)
"Uno studio complessivo delle caratteristiche nazionali secondo Kant (6) sarà possibile solo allorché tutti quelli che ci sono rimasti tra i quaderni di appunti presi alle sue lezioni di antropologia saranno stati pubblicati nell’àmbito dell’edizione generale degli scritti kantiani. Per il momento dobbiamo accontentarci di qualche sondaggio preliminare, cercando di paragonare le sue primissime opinioni in proposito, tramandateci nelle Beobachtungen über das Gefühl des Schönes und Erhabenen (1764), con le più tarde, espresse nella Anthropologie Dohna (1791) e nella Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (scritta nel 1796-1797). Il lungo tratto di tempo, e i molti avvenimenti intercorsi, ci permetteranno di mettere in evidenza una certa evoluzione del pensiero kantiano. (p. 133)
(...)
"Scorrendo queste pagine, il lettore non avrà potuto resistere alla tentazione di paragonare le descrizioni settecentesche, e particolarmente kantiane, del carattere dei diversi popoli, con le immagini di tali popoli che sono diffuse ai nostri giorni, e con quanto gli ultimi due secoli di storia ci hanno insegnato su di essi; e si sarà talora stupito di certe coincidenze, e talaltra avrà sorriso di certe radicali divergenze di giudizio o da qualche errata previsione. E si sarà forse convinto che, se una conclusione non solamente storica può trarsi da quanto precede, questa è che tali immagini, nel modo in cui esse venivano e vengono ancora elaborate, non sono che il frutto di un fenomeno o di fabulazione, o di percezione sociale altamente relativo e arbitrario, cristallizzato in molti casi dal successo di una tradizione pubblicistica che lo diffonde e lo perpetua — per cui la « prova dei fatti » conferma tali immagini non pili di quanto confermi i pronostici dell’astrologia." (p. 138)
(1) Non esiste alcuna storia generale di questa tradizione. Utili elementi possono essere ricavati da: J. C. Spener, Historia doctrinae de temperamentis hominum, Halle 1704; H. Kohn, The Idea of Nationalism. A Study in its Origin and Background, New York 1948; M. T. Hodgen, Early Anthropology in the Sixteenth and the Seventeenth Centuries, Philadelphia 1964; G. Cocchiara, Storia del Folklore in Europa, Torino 1952; A. Collignon, Le 'Portrait des esprits' de Jean Barclay, Nancy 1906.
———. 1987. Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento. Napoli: Prismi Editrice.
A cura di Claudio Cesa.
Indice: Prefazione di Claudio Cesa 11; La «debolezza» della Ragione nell’età dell’Illuminismo 19; La discussione sui limiti dell’intelletto umano nel Settecento e la genesi del criticismo kantiano, con particolare riferimento al problema dell’infinito 43; La disputa sul metodo matematico nella filosofia della prima metà del Settecento e la genesi dello scritto kantiano sull’ ‘evidenza’ 79; La concezione leibniziana delle idee innate e le prime reazioni alla pubblicazione dei Nouveaux Essais (1765) 109; Zabarella ispiratore di Baumgarten o l’origine della connessione tra estetica e logica 137; L’ambiente storico-culturale di Königsberg e la formazione della filosofia kantiana 147; La ricomparsa della terminologia dell’aristotelismo tedesco durante la genesi della Critica della ragion pura 169; Primi sviluppi della teoria del genio in Kant (1770-1779) 181; Divinae particula aurae. Idee geniali, organismo e libertà. Una nota sulla Riflessione 938 di Kant 235; Due fonti inglesi dimenticate della morale kantiana 247; L’etica kantiana parte della metafisica: una possibile ispirazione newtoniana? Con alcune osservazioni su «I sogni di un visionario» 257; La Critica della ragion pura di Kant nel contesto della tradizione della logica moderna 283; Cos’è la storia della filosofia? 293; Indice dei nomi 311-318.
"I saggi qui presentati, come del resto gli altri lavori di Tonelli, sono densi di richiami alle tradizioni, ed ai contesti (le dispute teologiche, filosofiche, scientifiche, e magari anche le beghe universitarie) che hanno influito, o che possono aver influito, nell’orientare un pensatore in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma il lettore si accorgerà agevolmente che non viene proposto né un livellamento né un determinismo: c’è, anzi, una cura minuziosa a delineare i tratti distintivi dei personaggi, anche di terz’ordine, che vengono evocati, ed è proprio la estrema ricchezza delle combinazioni a rendere impensabile ogni forma di determinismo. Tanto più che, come egli notò proprio a proposito di Kant, « la storia della filosofia si trova spesso nella necessità di prendere in considerazione vari elementi esplicativi di carattere irrazionale o semi-irrazionale », situati fuori, insomma, da quella « consequenzialità » che il pensatore riconosceva, ed alla quale si era magari richiamato nelle sue proprie argomentazioni.
Sulla metodologia della storia della filosofia Tonelli rifletté a lungo; l’articolo presentato in chiusura di questo volume è il compendio di un lavoro molto più vasto, rimasto inedito. Rispetto alle metodologie filosoficamente motivate, egli proponeva una metodologia « storica », e, come puntigliosamente precisava, relativa « ad uno solo dei numerosi punti di approccio complementari (o livelli di lavoro) »: gli elementi, cioè, che occorre possedere per mettersi in grado di comprendere correttamente un testo filosofico. Sarebbe qui fuori luogo riassumere; basterà dire che l’articolo di Tonelli è articolato sulla distinzione tra l’ordine genetico delle dottrine, l’ordine sistematico (cioè l’organizzazione di un nucleo teorico sulla base di certi princìpi costruttivi o fondanti) e l’ordine espositivo volta ripartito in specifici momenti). Se il dichiarato proposito è di indicare le condizioni di una adeguata comprensione di un testo particolare, questa è in realtà soltanto il punto di arrivo di una ricerca che investe primariamente l’autore e l’epoca. Ma non è da perdere di vista, inoltre, che quel che si vuol raggiungere è una conoscenza completa del sistema concettuale, nella quale dovrebbero trovare spiegazione anche quelle che al lettore sembrano aporie (o che l’autore stesso considerò, in altra fase del suo pensiero, aporie); per le quali non basta appellarsi a motivi « psicologici » o « sociologici », perché questi illustrano soltanto « alcuni » dei caratteri di un pensiero, e in « certi » momenti del suo svolgimento.
Quando tutti questi elementi saranno stati vagliati, occorrerà tirar le somme studiando la struttura del testo. E, a questo proposito, ho l’impressione che la procedura di Tonelli, in tanti dei suoi scritti, sia stata più attenta alle strutture sistematiche di quanto egli non abbia dichiarato nel suo articolo metodico. Non credo comunque si tratti di una contraddizione. Era ovvio che, in via di principio, Tonelli dichiarasse che nessun sistema concettuale abbia una « validità universale », e che nessun passaggio da una idea all’altra vada considerato come « una deduzione consequenziale in senso stretto ». Ma, chiarito questo, l’argomentare del filosofo (quando è un filosofo serio) merita attenta considerazione: la genesi, insomma, avvia alla comprensione del testo, non la sostituisce. E l’attenzione che Tonelli ha sempre dedicato alla struttura sistematica delle opere di Kant (ma esempi analoghi si potrebbero moltiplicare) mostra come vivo in lui fosse il senso per le « ragioni » della filosofia. È anche per questo, credo, che lo si debba a buon diritto dire storico delle idee filosofiche, e non semplicemente storico delle idee." (dalla Prefazione di Claudio Cesa, pp. 16-17)
———. 1987. "La «debolezza» della Ragione nell’età dell’Illuminismo." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 19-41. Napoli: Prismi Editrice.
Traduzione di The "Weakness" of Reason in the Age of Enlightenment, in Diderot-Studies, XIV, 1971, pp. 217-244.
"La concezione tradizionale dell’Illuminismo è stata già messa in questione; essa è stata criticata nel suo complesso, ad esempio da Funke, ed in senso parziale, relativamente ad uno specifico ambito, da Vyverberg (1). Assai significativo qui è soprattutto l’approccio di R. H. Popkin al problema dello scetticismo settecentesco (2); quella dello scetticismo fu infatti una delle questioni principali dibattute in quell’epoca, e Hume non costituì affatto un caso isolato. Benché, tuttavia, io personalmente propenda a riconoscere allo scetticismo settecentesco una diffusione ancora più larga di quanto non faccia lo stesso professor Popkin (3), quello scettico non può venir considerato un orientamento comune (e tanto meno tipico) del XVIII secolo; anche la corrente anti-scettica fu, è evidente, di capitale importanza, raggiungendo il suo momento culminante in Inghilterra con la scuola del senso comune e, in Germania, con Kant. Viceversa, l’accentuazione dei limiti dell’intelletto umano può considerarsi (con poche, ma importanti eccezioni) un’attitudine diffusa e, in certa misura, persino tipica, del XVIII secolo.
Vorrei ora esporre brevemente l’ovvia differenza di fondo tra la posizione scettica e la posizione volta a stabilire i confini dell’intelletto umano, anche se ciò può comportare alcune eccessive semplificazioni.
Lo scetticismo mette in dubbio la possibilità, per la ragione umana, di raggiungere una qualsivoglia verità assoluta con certezza dimostrativa (e, in alcuni casi, anche con certezza morale: il pirronismo « storico »); per lo scetticismo, l’essenziale è la « qualità » della conoscenza, il genere di certezza possibile per l’uomo.
La posizione volta a stabilire i limiti della ragione umana, al contrario, si interessa dell’estensione della conoscenza razionale (di qualsiasi genere).
Entrambe le posizioni, naturalmente, possono essere complementari. Per uno scettico assoluto il problema dei limiti non esiste neppure, ma uno scettico moderato, che ammetta la possibilità della conoscenza probabile, è in genere interessato a determinare i limiti di questa conoscenza. Molti pensatori, tuttavia, pur orientandosi verso la determinazione dei confini dell’intelletto, non sono affatto scettici; essi possono ritenere la certezza dimostrativa possibile entro i limiti dell’intelletto umano (o, per meglio dire, possono di fatto fissare dei confini diversi per la conoscenza, uno per la conoscenza certa, l’altro per quella probabile), e possono in tal modo pensare che la verità assoluta (o perlomeno la conoscenza necessaria ed universale) sia, in parte, alla portata dell’uomo." (pp. 21-22)
(...)
" Questa rassegna, in verità assai incompleta, delle posizioni filosofiche del XVIII secolo volte a determinare i limiti dell’intelletto umano, necessita almeno di un’aggiunta finale, che funga da esempio di un tipo di limitazione che non deriva, come negli esempi precedenti, dai confini imposti alla ragione dalla autorità dell’esperienza, ma dalla intrinseca debolezza della ragione stessa per quanto concerne le sue capacità concettuali. Si tratta del concetto di infinito. L’infinito, da questo punto di vista, non implica direttamente l’idea di esistenza — ed è perciò in qualche misura indipendente dalle leggi dell’esperienza.
Esistono due tipi radicalmente diversi di infinito: l’infinito qualitativo degli attributi di Dio, e l’infinito quantitativo della creazione. L’esistenza del primo tipo di infinito non può essere considerata un problema particolare a sé stante, poiché essa è già implicita nell’esistenza di Dio; il secondo tipo di infinito è considerato esistente non attualmente, ma solo potenzialmente. Bisogna fare un’eccezione per alcuni pensatori, d’estrazione per lo più spinoziana, come Raphson o Terrasson, i quali consideravano il mondo infinito in atto.
Il problema essenziale è tuttavia se questo infinito — sia esso esistente in Dio o in potenza nel mondo — possa o meno venir concepito dalla ragione umana. È quasi superfluo ricordare che questo rappresenta uno tra i tanti problemi che l’Illuminismo aveva ereditato dalla tradizione plurimillenaria della filosofia occidentale. Nell’Età della Ragione predomina, nell’affermazione di un’intrinseca debolezza della ragione, un atteggiamento negativo. L’uomo, in quanto è un essere finito, può avere solo un’idea negativa o imperfetta dell’infinito, benché questa idea sia utile ed indispensabile in molti ambiti, dalla teologia alla matematica, e benché la sua verità debba essere rivendicata anche se non può venire direttamente compresa. In Gran Bretagna Raphson, Clarke, Collier, Berkeley, Hume e Madaurin concordavano su questo punto; in Francia, Crousaz, Buffon, d’Alembert, Robinet. In Germania Wolff, l’apostolo della potenza della ragione, tentò di imporre una soluzione di compromesso, ma venne contestato da Crusius, Reimarus, Lambert e Kant." (p. 38)
(1) Vedi G. Funke, Das sokratische Jahrhundert, Introduzione all’antologia, da lui curata, Die Aufklärung, Stuttgart, 1963; H. Vyverberg, Historical Pessimism in the French Enlightenment, Cambridge Mass., 1958.
(2) R. H. Popkin, Scepticism in the Enlightenment, in « Studies on Voltaire and the Eighteenth Century », XXVI, 1963.
(3) Vedi il mio studio Kant und die antiken Skeptiker, in Studien zu Kants philosophischer Entwicklung, hrsg. v. H. Heimsoeth, Hildesheim, 1967.
———. 1987. "La discussione sui limiti dell’intelletto umano nel Settecento e la genesi del criticismo kantiano, con particolare riferimento al problema dell’infinito." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 43-78. Napoli: Prismi Editrice.
Traduzione di La question des bornes de l'entendement humain au XVIIe siècle et la genèse du criticisme kantien, particulièrement par rapport au Problème de l’infini, in « Revue de Métaph ysique et de Morale », LXV, 1959, pp. 396-427.
"Hume e Kant non sono stati i primi a proclamare la necessità di ammettere che lo spirito umano non può conoscere tutto, e ad imporre il rispetto dei suoi limiti: troppo spesso lo si dimentica, quando si cerca di ricostruire le origini della filosofia kantiana. Per questo ci proponiamo di delineare qui un quadro molto sintetico del problema all’epoca della formazione filosofica di Kant.
Se dovessimo trattare in maniera esaustiva il tema da noi affrontato ci troveremmo dinanzi ad un compito smisurato, il cui assolvimento andrebbe ben al di là di ciò ch’è necessario per una comprensione migliore della personalità di Kant. In effetti si tratterebbe in primo luogo di scrivere nientemeno che la storia dello scetticismo, su cui d’altronde sono state pubblicate diverse opere (1) ma non saremmo che all’inizio, poiché è evidente che numerosi pensatori i quali non possono essere considerati in nessun modo degli scettici hanno riconosciuto che la capacità umana di conoscere non è illimitata. Occorrerebbe infine parlare di tutti quei mistici che tendevano a sminuire o a negare il valore della conoscenza razionale al solo scopo di far posto alla fede o all’illuminazione interiore.
Ciò che ci proponiamo qui dunque è soltanto la descrizione dell’aspetto del problema nei suoi tratti più generali nel corso della prima metà del Settecento, il che ci costringe ad occuparci anzitutto rapidamente di quei grandi pensatori del Seicento che esercitavano ancora un influsso importante nel secolo successivo. Rinunciamo dunque a studiare certi pirroniani veramente caratteristici del Seicento, come La Mothe Le Vayer, Huet, Glanville, ecc. (2), la cui importanza non va oltre i confini della loro epoca.
Il problema che ci accingiamo a trattare presenta naturalmente parecchi aspetti differenti: in effetti si può cercare di stabilire l’estensione delle conoscenze possibili nelle direzioni più divergenti e si possono concepire in maniera molto diversa i limiti di queste conoscenze.
Ci accontenteremo pertanto di dividere il nostro tema in due parti principali: nella prima ci occuperemo del problema dei limiti in generale; nella seconda esporremo più in particolare il problema specifico dei limiti dello spirito umano in rapporto all’infinito, problema che assorbiva all’epoca la parte maggiore delle discussioni dedicate al nostro tema. Trascureremo dunque consapevolmente diversi aspetti più specifici della questione, come il dubbio dei cartesiani circa la validità della conoscenza sensibile e le crisi delle nozioni di sostanza e di forza; si trattava, per questi ultimi, di problemi riconosciuti nel Settecento tra quelli di più difficile soluzione per l’uomo (3). In particolare i newtoniani moderati ammettevano che la forza d’attrazione era qualcosa di misterioso e d’inesplicabile dal punto di vista della filosofia meccanica (4). Allo stesso modo in teodicea gli avversari dell'ideologismo dichiaravano ch’era impossibile penetrare i disegni della saggezza divina e ch’era meglio spiegare i fenomeni mediante le cause efficienti (5); per non parlare poi delle incertezze riguardo al problema della libertà.
Eviteremo così pure di discutere certe forme d’idealismo che, più che i limiti dell’intelletto umano, presuppongono che non si possa conoscere nulla del mondo sensibile perché, in realtà, il mondo sensibile non esiste." (pp. 45-46)
(...)
"Kant ha cominciato abbastanza presto ad occuparsi della questione dei limiti dell’intelletto umano. Nella Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels [Storia naturale universale e teoria del cielo] del 1765 esprime i suoi dubbi sulle capacità conoscitive dell’uomo per le ragioni seguenti: anzitutto i sensi s’ingannano; in secondo luogo è impossibile per l’uomo cogliere ciò ch’è smisurato (189). Tuttavia la possibilità d’applicare le matematiche alla cosmologia conferisce a questa scienza un valore di certezza che compensa la debolezza dei nostri sensi (190). È vero però che la branca della cosmologia di cui Kant in modo particolare si occupa, cioè la cosmogonia, può essere matematizzata solo fino ad un certo punto, essendo fondata piuttosto su un ragionamento analogico (191). E questo perché tale branca è fondata su principi metafisici, principi che non sono suscettibili di certezza, in quanto hanno a che fare con nozioni implicanti l’infinità sia quantitativa, sia metafisica: e solo Dio può concepire l’infinito (192). Esiste d’altra parte un altro oggetto che presenta almeno pari difficoltà dell’infinito alla conoscenza: l’organismo vivente (193).
È evidente che il dubbio concernente la conoscenza sensibile, dubbio superato mediante la conoscenza matematica, dipende più o meno direttamente dalla ben nota formulazione cartesiana. Il dubbio riguardante le conoscenze fondate su nozioni infinite dev’essere attribuito in parte ad un atteggiamento antiwolffiano ispirato dai pietisti, e da Crusius in particolare; in parte all’influsso metodologico di un ispiratore della Naturgeschichte, Wright of Durham (194). D’altra parte, in generale, il fatto che si avanzino delle riserve riguardo ai limiti delle conoscenze umane è un atteggiamento polemico nei confronti dell’ortodossia wolffiana. La difficoltà di conoscere l’organismo vivente è un tema molto diffuso nel Settecento. Appunto perché si riconosce l’impossibilità della spiegazione meccanica degli esseri viventi (dottrina anch’essa antiwolffiana), si proclama misteriosa la natura di questi ultimi, rifiutando la teleologia come spiegazione razionale soddisfacente (195).
Il tema dell’incomprensibilità dell’infinito metafisico ritorna nella Nova Dilucidatio del 1755 (196); ma è nel Beweisgrund [L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio] del 1762 che si annuncia un tema nuovo: vi sono delle nozioni composte ch’è impossibile (per l’uomo) analizzare (197); questo tema riappare nel saggio sulla Deutlichkeit [Ricerca sull’evidenza dei primi principi della teologia naturale e della morale] del medesimo anno (198). Abbiamo visto che tale dottrina è di derivazione crusiana.
I Träume eines Geistersehers [Sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica] del 1776 recano delle novità importanti: Kant fa rilevare che vi sono nozioni le quali non sono fondate, direttamente « indirettamente, su nessun dato, e che possono essere pensate solo negativamente: queste nozioni, che appartengono in generale alla pneumatologia, sono puramente immaginarie (199). Anche la nozione della natura spirituale di Dio è soltanto negativa (200). In realtà tutto ciò che riguarda la natura spirituale, la libertà e la predestinazione rientra in questa categoria (201). In più, vi sono dei rapporti fondamentali inerenti a ciò ch’è dato che non si possono concepire (einsehen), poiché la loro natura non è fondata sull’identità; per esempio, la forza di attrazione. Questi rapporti possono essere conosciuti soltanto sulla base dell’esperienza (202). La nozione kantiana dei limiti è dunque, nel 1766, molto complessa e molto differenziata. L’importanza attribuita da Kant all’esperienza dipende certamente dall’atteggiamento di Newton e Locke al riguardo, atteggiamento sottolineato da alcune tendenze filosofiche del tempo, rappresentate soprattutto da Baumgarten e da Lambert; tendenze che avevano portato Kant ad esigere dalla metafisica un procedimento in concreto, vale a dire un controllo sperimentale continuo mediante esempi reali (203). La diffidenza riguardo alle teorie pneumatiche è ispirata forse più precisamente da Locke. Quanto all’insufficienza dell’identità per spiegare certi rapporti reali, si tratta di una teoria che Kant aveva tratto da Crusius nel suo scritto sulle Negative Grössen [Saggio per introdurre in matematica il concetto delle grandezze negative]; Crusius tuttavia non ne faceva un motivo di dubbio, o di limitazione dell’intelletto: questo sviluppo è in Kant originale. Bisogna comunque notare che ai tempi di Kant l’attrazione era in genere considerata ima forza misteriosa.
Rinunciamo a discutere lo sviluppo ulteriore del problema dei limiti dell’intelletto in Kant: ci basta aver raccolto qui la documentazione necessaria per affrontare questo problema; il suo esame approfondito ci condurrebbe troppo lontano e richiederebbe l’analisi di un numero ben maggiore di fattori che qui non abbiamo potuto prendere in considerazione, in altra sede (204) abbiamo parlato dei cambiamenti di prospettiva nella questione dei limiti al tempo della rivoluzione copernicana del 1769 ed abbiamo mostrato l’interesse che questo problema destava nello stesso periodo in Lambert." (pp. 64-65)
(1) C. F. Stäudlin, Geschichte und Geist der Skeptizismus, 2 Bde., Leipzig, 1794; J. F. I. Tafel, Geschichte und Kritik des Skeptizismus, Tübingen, 1834; H. Was, Geschiedenis van het Scepticisme, I, England, Utrecht, 1870. [cfr. ora gli scritti di Richard H. Popkin, in particolare The History of Scepticism from Savonarola to Bayle (terza edizione ampliata), Oxford University Press, 2003 e la traduzione italiana della prima edizione (1960), Storia dello Scetticismo, Milano: Bruno Mondadori, 2008]
(2) Cfr. Stäudlin, op. cit., II vol.
(3) Cfr. il nostro articolo Critiques of the Notion of Substance prior to Kant, d’imminente pubblicazione in « The Journal of the History of Ideas » [cfr. invece «Tijdschrift voor Philosophie», 1961, pp. 285-301].
(4) G. Tonelli, Elementi metafisici e metodologici in Kant precritico, Torino, 1959, vol. I, cap. II, 28 e sgg.
(189) I. Kant, Schriften. Preussische Akademie-Ausgabe, Bd. I, Berlin, 19102, p. 229.
(190) Ibid., p. 230.
(191) Ibid., pp. 235-236.
(192) Ibid, p. 256 e pp. 309-310. i» Ibid., pp. 229-230.
(193) Ibid, p. 229-230
(194) Cfr. G. Tonelli, Elementi metafisici e metodologici..., cap. II, S 53.
(195) Ibid., cap. II, § 17.
(196) Ibid., p. 405.
(197) Kant, Schriften, ed. cit., Bd. II, 19122, p. 70 [trad. ìt. di P. Carabellese, riv. e accresciuta da R. Assunto e R. Hohenemser, Bari, 1953, p. 109].
(198) Ibid, p. 280 [trad. it. dt., pp. 227-228].
(199) Ibid., pp. 351-352 [trad. it. dt., p. 404].
(200) Ibid., p. 321 [trad. it. dt., p. 371].
(201) Ibid., pp. 369-371 [trad. it. dt., pp. 423-425].
(202) Ibid., pp. 370-371 [trad. it. cit., pp. 424-425].
(203) Cfr. G. Tonelli, Kant, dall’estetica ..., cit., SS 82-90 e 136-137.
(204) Ibid., cap. IV, prima sezione.